Quaderni della Fondazione Professor Paolo Michele Erede a cura di Michele Marsonet

Quaderno N. 1 – 2008. “I Problemi della Società Multietnica”
Numero monografico dedicato agli elaborati vincitori della Prima Edizione del Premio Professor Paolo Michele Erede

Francesco Di Gregorio - La sfida del futuro: uno sguardo filosofico al destino dell’uomo nelle parole di Paolo Michele Erede ed Hans Jonas.

Vincitore del Secondo Premio

La paura del domani.

Tutto gira sempre intorno a questa paura. Ognuno di noi più o meno consciamente prova paura per quel che sarà, per il “semplice” fatto che il futuro, per sua stessa definizione, è qualcosa che non co­nosciamo ancora o, più sottilmente, non conosceremo mai giacché nel momento in cui il futuro è, esso smette di essere futuro per di­ventare presente. L’ineluttabilità di questo fatto e il nostro continuo rincorrere ciò che sempre ci sfugge e ci sfuggirà aggravano le spalle dell’uomo di un’angoscia che è d’altronde tipicamente umana. È una domanda propria solo dell’uomo a maggior ragione nell’attuale so­cietà multiculturale.

Pure, millenni di preoccupazione in tale senso non alleviano il peso della domanda stessa, così chiaramente legata al fallimento della ri­sposta.

L’uomo moderno, d’altra parte, non può, perchè non in grado, di esimersi dal domandarsi. Non è in grado perchè è proprio dell’essenza dello spirito umano il proiettarsi lungo delle coordinate di spazio e tempo, più o meno estese. Nelle parole di Heidegger ri­troviamo il riconoscimento dello spazio e, soprattutto, del tempo come dimensioni determinanti dell’essere dell’uomo [1].

Se è vero che lo spazio ed il tempo sono, come sosteneva Leibniz [2], un qualcosa di puramente relativo, e lo spazio è ordine di coesi­stenze mentre il tempo è ordine di successione, questa relatività ha un’importanza fondamentale, e questo è intuitivo, nella scansione della vita umana.

Conscio di questo, Paolo Michele Erede aprì il capitolo Le compatibi­lità per una cultura dell’incontro in una società multietnica nell’opera Florilegio, con queste parole:

«Ieri si guardava il passato per prevedere l’avvenire, oggi è preferibile in­terrogare l’avvenire per organizzare il presente.

Fra il “non è più” e il “non è ancora” in un divenire che è avenir changeant non si può andare avanti guardando indietro»[3]

 

Erede quindi ritiene che l’uomo contemporaneo abbia smesso di guardare al passato come in una sfera di cristallo da chiromante per volgere lo sguardo sul futuro in funzione del presente. Questo sguardo non è esente però da quella paura, quell’angoscia di cui ho parlato poc’anzi in virtù di quell’avenir changeant che, proprio perchè changeant spiazza, disorienta, confonde.

Eppure, non per questo non possiamo reagire, per quanto possibile, a questa situazione.

La condanna dell’uomo che si interroga su sé stesso senza trovare ri­sposta, non per questo rimane senza parole di fronte alla vertigine della domanda che si auto-pone. Tra le righe di Erede scopriamo un uomo che non sa, ma che in realtà non è impreparato all’eventualità di una mancanza di soluzione al proprio dilemma.

Lo sguardo interiore comunque non si esaurisce nel silenzio, ma svela comunque la parola sussurata del proprio io. Questo sussurro parla di noi stessi, del carattere proprio di quell’uomo angosciato dal futuro.

È caratteristica dell’uomo, insieme all’interrogarsi, il porsi in ma­niera bipolare nei confronti dell’avvenire. L’atteggiamento è lo stesso, e come vedremo non si tratta di un fatto casuale, di quello che abbiamo nei confronti delle altre culture. Ancora le parole di Flo­rilegio ci sono d’aiuto:

«Quando culture differenti sono messe a contatto, avvengono sempre reci­proche sensibilizzazioni che conducono a “scontro-rifiuto” come a “incon­tro-accettazione”, nel primo caso possono verificarsi conflitti talora violenti sia sul piano collettivo sia su quello individuale determinati da reciproca diffidenza, non conoscenza e timori di “contaminazione” che snaturi l’originalità etnico-culturale; nel secondo caso – talvolta impercettibilmente e molto lentamente – si va, consciamente o inconsciamente, incontro ad as­similazioni selezionate secondo il grado di plausibilità (vedi nelle arti, nell’artigianato, nei rapporti con la natura, nelle abitudini di vita: alimen­tazione, abbigliamento, ecc..), mentre al contrario restano impermeabili concezioni religioni e filosofiche e tradizionalismi così esasperati da creare barriere insormontabili all’integrazione, anche se tali non appaiono in su­perficie per esigenze di convenienza.»[4]

 

Ecco, qui Erede coglie perfettamente il punto.

Mi si dirà: ma in questo passo si parla di convivenza sociale, di cul­ture che vengono a contatto e che si incontrano/scontrano, di etnie in conflitto e quant’altro riguardi più che altro la sociologia.

Ma, mi chiedo, la domanda sul futuro, il chiedersi cosa sarà, cos’altro è se non un chiedersi cosa saremo? Non è un interrogarsi sulla nostra identità, cioè se domani saremo esattamente quel che siamo oggi, o, se saremo diversi, in che modo saremo cambiati? La domanda sul futuro è perciò sentita oggi più che in passato come domanda sulla nostra identità.

La convivenza con l’altro è proiettarsi sul vivere futuro.

La società multietnica è così in un doppio senso la società del futuro.

In un primo senso è società del futuro perché, come ben sappiamo, i sempre maggiori flussi migratori aumenteranno ulteriormente, più di quanto già fatto, la varietà etnica delle nostre città, delle nostre scuole, delle nostre istituzioni. In questo senso la società del futuro è la società multietnica. In un secondo senso, la società multietnica è la società che si interroga sul futuro forse più di altre in passato. Avendo un numero maggiore di componenti differenti tra di loro, diventano maggiori le possibilità, e maggiori le preoccupazioni, di quale di queste possibilità si avvererà.

L’analisi di Erede non può così che concentrarsi, per trattare il pro­blema della convivenza sociale, sul tema portante dell’umanità scomposta nelle sue due essenziali componenti che sono lo spazio ed il tempo.

Se però il problema dello spazio viene ben approfondito da Erede, il problema del tempo rimane irrisolto.

Soffermiamoci però sulla prima questione.

Erede distingue tre spazi: spazio di vita, spazio sociale e spazio vis­suto. Il primo rappresenta lo spazio concreto del quotidiano, il se­condo è l’insieme delle interrelazioni sociali. Lo spazio vissuto rac­chiude entrambi gli elementi precedenti in quanto è:

« (...) insieme dei luoghi frequentati dall’individuo, ma anche delle relazioni sociali che vi si svolgono e dei valori psicologici che vi sono percepiti e proiettati.»[5]

 

Lo spazio vissuto si distingue in formazioni socio-spaziali di diversa grandezza e livello, da quella più piccola di livello locale attraverso un livello intermedio-regionale fino alle macrostrutture come na­zioni, federazioni e confederazioni di stati.

Il punto problematico dello spazio dell’uomo si riassume però tutto nel concetto di frontiera e, aggiungo io, in quello più generale di di­visione. Finché i popoli continueranno ad essere attanagliati dalla paura del proprio futuro, che abbiamo detto essere un problema circa l’identità, e continueranno a preoccuparsi di erigere barriere geopolitiche e culturali a causa dell’ansia di smarrire il proprio sé, assisteremo sempre a divisioni nette, intransigenti ed intolleranti tra vicini. Soprattutto, la questione è ancora più grave quando, come detto sopra, la frontiera, che Erede riconosce come prodotto di av­venimenti storici, presuppone una chiusura delle idee, della società e della cultura.

L’abbattimento della frontiera culturale diviene necessario se l’uomo vuole affrontare la sfida del futuro in maniera attiva senza rimanere non protagonista nel momento decisivo per le sorti del proprio es­sere in quanto

« (...) una cultura dell’incontro in una socità multietnica non può sorgere che dalla rimozione di una inerzia storica e dal graduale superamento di una concezione etnocentrica che rende reciprocamente estranei, ai rispettivi universi della cultura e della civiltà, residenti ospitanti ed immigrati»[6].

 

 

Che l’uomo debba smuoversi da una sorta di impasse, da quel blocco psico-sociale che deriva dalla paura per il futuro, era già chiaro nelle prime parole di Erede, laddove egli ricorda che:

«Non si può vivere con l’incubo della “minaccia del futuro” tentando di re­spingerlo, nè cedere passivamente agli eventi per timore del passato e diffi­denza del futuro»[7].

 

Ed il richiamo successivo all’uomo moderno come uomo che comu­nica, homo comunicans, non è altro che il disvelamento dell’essenza profonda dello spirito umano.

L’uomo che comunica è l’uomo che è veramente, ed è tale solo in quanto comunicante lo spazio ed il tempo, cioè comunicante di es­sere immerso in uno spazio e nel tempo. Ancora, è l’uomo che in quanto comunicante, cioè non solo asserente o ascoltatore, ma se vogliamo in una parola dialettico, abbatte qualsiasi sorta di frontiera culturale che lo divide dal vicino, dall’altro, da ciò che egli non è. L’homo comunicans è l’uomo che conosce, che , secondo Erede, favo­risce il rapporto interetnico all’interno della società multiculturale, che diviene così realmente:

« (...) “Società multietnica” e non “somma” spersonalizzata e spoliatrice delle rispettive individualità»[8].

 

Insomma, per dirla gestaltianamente il tutto è più della semplice somma delle parti.

L’uomo che è, l’uomo che conosce, è, così, solo quello che è insieme agli altri, solo in tal modo può essere veramente sé stesso.

Lo stesso Erede ricorda che le dimensioni dello spirito sono due, spazio e tempo, ma che è eccessiva l’attenzione posta sullo spazio. Occorre concentrarsi anche sulla seconda categoria, affinché quest’uomo sia veramente; occorre che l’uomo affronti attivamente la domanda sul futuro di maniera tale da poter essere-con-gli-altri an­che nella dimensione temporale, non solo in quella spaziale. Af­frontare la domanda vuol dire essere-nel-tempo, oltre che essere-nello-spazio, piuttosto che lasciarsi travolgere dagli eventi della storia giacché:

«Lo stravolgimento dei ritmi di vita, il non rispetto – peraltro innaturale dei bioritmi, l’accelerazione del tutto – imposta anche dalla Società tecnolo­gica – porta con sé ansia, tensione emotiva, stress e soprattutto un progres­sivo disadattamento alla vita di relazione (...) »[9].

 

Dimenticare la costituzione dell’essenza dello spirito, tralasciare la dimensione del tempo pregiudica anche una corretta calibratura delle coordinate spaziali.

L’uomo che non-è-nel-tempo non-è nemmeno nello-spazio.

Ma l’uomo che è-nel-tempo è l’uomo che affronta il proprio destino, che si pone quella domanda che risveglia in esso paure ancestrali: la domanda del futuro.

Eccoci quindi tornati al punto di partenza di questa breve rifles­sione. Certamente una questione di così importante peso non può certo essere risolta in così poche parole, ma uno sguardo per lo meno attento può essere d’aiuto.

La domanda sul futuro, dicevamo.

Quale risposta allora possiamo ad essa dare per soddisfare le curio­sità dello spirito?

In verità una risposta è già stata fornita.

Se dimenticare la dimensione temporale, ho precedentemente detto, pregiudica anche la corretta spazializzazione dello spirito, allo stesso modo dimenticare la dimensione dello spazio pregiudica la temporalità.

Si è visto però che la caratteristica dell’uomo come essere spaziale è quella di essere-con gli altri, che lo spazio è leibnizianamente un or­dine di coesistenze, allora di questo dobbiamo tenere conto per ri­spondere alla domanda che ci poniamo.

L’unico modo per essere-con gli altri è però quello di curarsi degli al­tri, di prendersi cura degli altri, ma se immergiamo la realtà spaziale dello spirito umano nel tempo l’essere-con diventa un prendersi cura di coloro che verrano dopo di noi, delle future generazioni.

La risposta alla questione sul futuro è nel preoccuparsi, nel curarsi del nostro futuro.

Il richiamo alle splendide parole di Hans Jonas è qui inevitabile. La risposta alla domanda sul futuro sta nel concetto di responsabilità jonasiano.

La soluzione al nostro problema sta nell’imperativo ecologico di sal­vaguardia delle generazioni future. Siamo-nel-tempo nel momento in cui ci curiamo dell’umanità del futuro, cioè ci impegniamo a salva­guardare, in senso ampio, lo spirito dell’umanità.

Scrive difatti Jonas:

«Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra»[10].

 

La risposta che cercavamo dunque sta nell’imperativo jonasiano: devi, dunque fai, dunque puoi, che ribalta l’imperativo kantiano[11].

L’uomo che è veramente, l’homo dialecticus, è l’uomo che comunica sé stesso come soggetto immerso nello spazio, come essere-con gli altri, e nel tempo, come essere-che-si-cura degli altri.

L’uomo è perciò in grado di pensare autenticamente sé stesso e di superare quell’impasse derivante dall’inconscia paura del futuro ignoto.

Un futuro, pensato come attuazione di vite future, pur rimanendo sconosciuto nella sua applicazione, imprevedibile, acquista un senso che permette l’uomo di guardare al domani con meno preoccupa­zione, cosa possibile solamente se guarda al vero sé stesso, se disvela il vero significato del proprio spirito.

Il fondamento etico è anche fondamento metafisico e l’uomo vero è custode dell’essere come essere immerso nello spazio e nel tempo.

Ecco qui risolto la problematica emersa dalle parole di Erede a ri­guardo della ricerca di compatibilità in favore di una cultura dell’incontro all’interno di una società multietnica.

Questa ricerca ci ha portato però a riformulare più correttamente la questione: è possibile un incontro senza che si tenga conto degli aspetti fondamentali del soggetto protagonista di questo stesso in­contro?

La risposta negativa a questa domanda ci ha portati quindi a inter­rogare approfonditamente questo soggetto, cioè l’uomo, che emerge autenticamente come soggetto immerso nelle dimensioni dello spa­zio e del tempo, come essere-con gli altri ed essere-che-si-cura degli al­tri.

Queste due componenti chiarite per quanto riguarda lo spazio tra­mite le parole di Erede, il quale richiama l’attenzione anche al pro­blema di riformulare il nostro concetto di tempo, e quelle di Jonas, tramite il principio responsabilità, senza dimenticare l’influenza heideggeriana sulle parole che ho scritto, formano quello spirito autentico e unico la cui salvaguardia ed il cui sviluppo rappresen­tano la grande sfida del proprio destino per l’uomo contemporaneo.

 



[1]     M.Heidegger, Essere e tempo, traduzione italiana di P.Chiodi, Longanesi, Milano,1990.

[2]     Leibniz, III Lettres à Clarke, 4; Op.; ed. Erdmann, pag.752.

[3]     P. M. Erede, Florilegio, pag.63.

[4]     P.M. Erede, op.cit., pag. 64.

[5]     P. M. Erede, op.cit., pag. 65.

[6]     P. M. Erede, op. cit., pag. 68.

[7]     P. M. Erede, op. cit., pag. 63.

[8]     P. M. Erede, op. cit., pag. 71.

[9]     P. M. Erede, op. cit., pag. 72.

[10]    H. Jonas, Il principio responsabilità, 1979, Einaudi, Torino, pag.16.

[11]    H. Jonas, op. cit., pag. 159-160.




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