Quaderni della Fondazione Professor Paolo Michele Erede a cura di Michele Marsonet

Quaderno N. 1 – 2008. “I Problemi della Società Multietnica”
Numero monografico dedicato agli elaborati vincitori della Prima Edizione del Premio Professor Paolo Michele Erede

Andrea Sangiacomo - Alle radici dell’egoismo occidentale.

Vincitore del Quarto Premio (Ex.Aequo)

 

L’uomo che è, è l’uomo che comunica, è l’”Homo comunicans

(P.M. Erede — Le compatibilità per una cultura dell’incontro)

 

1.    Mettersi in discussione

 

            “Società multietnica” è una delle tante espressioni che nell’”epoca della globalizzazione” si pongono alla nostra attenzione innanzi tutto come una domanda a cui non possiamo più rifiutare di rispondere in prima persona. Che gli uomini siano uguali nel loro esser diversi è qualcosa che suona ormai come un luogo comune. E tuttavia la nostra cultura, la nostra società, la nostra stessa Civiltà, sono ancora ben lungi dal saper affrontare la scommessa che questo luogo comune ci impone di pensare.

            I flussi migratori, l’espansione demografica, gli squilibri eco­nomici e sociali, sono sotto gli occhi di tutti, tanto da rendere super­flua l’enumerazione di dati, statistiche, cifre, giacché queste parlano di una realtà che ormai incontriamo, ancor prima che negli studi uf­ficiali, in quella che è diventata la nostra quotidianeità. “Società multietica” è quindi un’espressione che si pone come una meta e un traguardo da raggiungere, una sfida che noi tutti siamo tenuti a rac­cogliere e che non possiamo permetterci di lasciare delusa. Il cuore di questa sfida sta nel trovare il modo per fare di una pluralità di soggetti tra loro non omogenei, se non proprio in potenziale o reale conflitto, una societas, cioè un organismo unitario, dove quest’unitarietà non sia il risultato di un’omologazione ma di un’integrazione, ossia non l’annullamento delle differenze, ma la conquista di un punto di Archimede che queste differenze sappia tenere in equilibrio.

            La filosofia, innanzi a tutto ciò, non può certo tirarsi indietro. E se il filosofare non è riducibile a un qualche sapere tecnico, capace di indicare i mezzi più idonei a conseguire un certo fine, ma si pone piuttosto come quella radicale messa in discussione dei problemi e, sondandone le radici, è volta a rilevarne le condizioni stesse di pos­sibilità e i taciti presupposti, allora essenzialmente filosofica è la ri­flessione di Paolo Erede:

 

una cultura dell’incontro in una società multietnica non può sorgere che dalla rimozione di una inerzia storica e dal gra­duale superamento di una concezione etnocentrica che rende reciprocamente estranei, ai rispettivi universi della cultura e della civiltà, residenti ospitanti ed immigrati. D’altra parte: l’etnocentrismo non è innato e però rappresenta qualcosa di molto essenziale dal momento che esso è solamente una esten­sione dell’egocentrismo che si trova alle autentiche radici della coscienza umana[1].

 

            Se di “società multietnica” si vuol parlare, sarà necessaria­mente questa una “società dell’incontro”, ma l’incontro, per acca­dere, richiede uno spazio speciale in cui sia possibile essere-l’uno-con-l’altro. E l’altro è tenuto come tale nella misura in cui è lasciato libero di porsi come interlocutore nello spazio aperto dal dialogo. Il dialogo è il luogo stesso dell’alterità e l’alterità è di per sé una peti­zione al confronto. Solo all’interno di una dimensione dialogica, l’espressione “società multietnica” può non ridursi a una «”somma” spersonalizzante e spoliatrice delle rispettive individualità»[2]. Tutta­via, questa impostazione non fa che ribadire la cogenza di un’interrogazione più approfondita circa le condizioni di possibilità del dialogo stesso. Se il dialogo dev’essere realmente basato sulla pluralità del dia-logo, e non ridursi a mono-logo, allora non può es­servi reale dialogo laddove vi sia autoaffermazione egocentrica di un Io, rocca ben difesa di ogni individualità, etnica, politica, econo­mica o culturale. Il dialogo è anzi lo spazio dove l’Io ha da mettersi in gioco, accettando di lasciarsi trasformare e ridefinire: dialogo è sempre appello alla re-sponsabilità. E tuttavia, qualcosa come il dialogo, anzi, la sua stessa possibilità sta o cade se si è capaci di pen­sare realmente l’alterità, il fuori, il non-Io. Se la figura dell’alterità è ridotta a figura retorica, a proiezione di un soggetto chiuso nel suo sé, la parola resta niente più che il muro più solido con cui circon­dare e proteggere la propria prigionia, fuggendo nella solitudine di una selbst-bewusstsein ripiegata riflessivamente sulla figura dell’ipseità, e quindi già posta essenzialmente come la più radicale negazione dell’altro in quanto tale.

            Non si pensi che in questo modo il filosofare riduca il suo di­scorso entro filosofemi viziosi e vuoti. Non sempre è vana cosa tentar l’essenza, e forse è proprio innanzi a problemi capitali come quelli della “civiltà multietnica”, che questa si presenta come l’unica via, forse la sola davvero percorribile, giacché in grado non di portare al­trove, ma di pensare altrimenti. Né, del resto, ci si può contentare dell’enunciazione di precetti pratici per una “civile convivenza” tra vicini che ritengono più utile una sopportazione reciproca, più o meno pacifica, che non un conflitto aperto. Al contrario, la questione veramente scottante da affrontare, almeno per noi occidentali, è: per­ché fino ad oggi nessun autentico incontro ci è stato possibile? La do­manda suona provocatoria e paradossale, ma non senza ragione. Non bisogna infatti incorrere nella facile presupposizione per cui il problema della convivenza tra etnie e gruppi diversi, sia un’arena dove si confrontano uguali contendenti. L’Occidente non è un con­tendente alla pari, la nostra storia ce lo insegna, e prendere sul serio la sfida che questa ci pone, significa, anche, avere il coraggio di as­sumerci in prima persona la responsabilità di quello che siamo.

Parliamo di dialogo, infatti, ben sapendo che questo, almeno in quella veste concettuale di cui la filosofia è rimasta depositaria, nac­que in Grecia, con i tragici prima e con quell’altro tragico, Platone, poi. Ma in Grecia il dialogo era una faccenda per greci: i barbaroi, coloro che balbettano, privi di un vero linguaggio, non educati nell’Ellade, sono per natura esclusi dal dialogo: non può esservi incon­tro con i barbari, costoro non appartengono alla koinè, alla societas, alla civilitas, ne stanno fuori. Né si può tacere che quella che noi chiamiamo “Civiltà Occidentale” e di cui, nel bene o nel male, dob­biamo dirci abitanti, più che una Civiltà dell’Incontro si è nei secoli configurata come una Civiltà del Colonialismo, e dell’Imperialismo e dell’altrui sottomissione, tanto da non rendere impossibile pensare che la “globalizzazione” sia anche l’estensione a livello globale del paradigma culturale occidentale.

            Ora, se come ci suggerisce Michele Erede, è necessario tener ben presente come «nel complesso processo che deve condurre ad una armonizzazione nella società multietnica, occorre anche rive­dere la cultura del tempo e la cultura dello spazio sottraendole alle ipo­teche della storia»[3], non ci sembra inutile contribuire, seppur mini­mante, alla discussione di questi temi fondamentali, prendendoci il tempo di addentrarci in una ricostruzione ideale della storia stessa di questa nostra “Civiltà Occidentale”. Che cosa significa infatti “Ci­viltà Occidentale?” Anzi, che cosa è la “Civiltà Occidentale”? E se è vero ciò che dicevamo, quali sono le radici del suo etnocentrismo e dunque del suo egoismo? Non è appunto l’egoismo, prima ancora che un rifiuto dell’altro, un chiudersi nella rocca ben sicura del proprio sé, nella fi­nitezza del proprio ego che vede come nemico il “fuori da sé” in quanto tale, prima ancora che l’altro uomo?

Ciò che intendiamo porre in discussione non è tanto la praticabilità di un certo “rimedio” piuttosto che un altro, né pretendiamo fornire una lista di mezzi più o meno praticabili per risolvere il problema che ci si pone, giacché simili impostazioni già in partenza ci preclu­derebbero ogni autentico contatto e ogni reale comprensione del problema stesso con cui abbiamo a che fare. Quel che davvero preme, infatti, è scorgere innanzitutto il cuore stesso di questo luogo che abitiamo, di questa Civiltà che noi siamo.

E se, del resto, stesse proprio nel modo in cui noi occidentali ascol­tiamo e intendiamo questo “essere”, se fosse proprio qui la radice più profonda e più taciuta di ogni violenza, la ragione che appunto ci ha fatto e ci fa essere ciò che siamo, ossia conquistadores? E se le parole stesse con cui pensiamo noi e gli altri, fossero invero sorde a testi­moniare la voce dell’altro, ipocrite a guardare davvero verso il “fuori”, giacché da tempo immemore ormai pietrificate nelle solide mura della nostra solitudine? Per tentare di procedere in questa di­rezione, sarà necessario comprendere prima di tutto quale sia la geo­grafia di quello spazio sociale, esistenziale e culturale a cui diamo nome “Civiltà Occidentale”, se è vero come è vero, che «lo spazio geografico è un prodotto costruito progressivamente dalle Società a loro immagine e in funzione dell’immagine che danno di se stesse, nella storicità delle loro esperienze»[4]. Comprendere dove siamo, quindi, per giungere a vedere in che modo si possa abitare questo luogo insieme con altri, scorgendo la via per fare dello spazio di questa civiltà un luogo di incontro e non già di reciproca sottomis­sione.

 

2.    Ilio dalle solide mura

 

All’uomo non è indifferente il luogo dove spende la propria esi­stenza, abitare è per lui il verbo dal significato più affine a quell’altro verbo, così austero e misterioso, Essere. L’uomo abita, è un abitatore di spazi. Ogni spazio è una campata di cielo e una fuga di sguardi, un’apertura inventata dall’orizzonte suo custode, una volta per tutte o forse ogni volta diversa. Abitare un luogo è imparare a pensare e a pensarsi in rapporto alla geografia del dove, all’ordine dello spazio che lì si dispiega, in relazione alla luce che in quella contrada il giorno conosce. Esser nati tra colli tranquilli, o tra valichi montani, o sulle spiagge del mare senza fine, sono diverse domande a cui cia­scuno dovrà rispondere esistendo.

Ma l’uomo non abita solo gli spazi e i luoghi che la natura disegna, anzi, egli, forse, abita soprattutto quegli spazi ideali che sono le pa­role. È infatti nel cerchio del dire che le cose, prendendo la parola, si fanno incontro agli uomini e si lasciano da loro comprendere, si rac­contano. Quando si pone la propria esistenza nel luogo del dire, nello spazio della parola, si incontrano le cose in modo diverso, non più come mute e indeterminate cose in sé, chiuse nel mistero del loro si­lenzio inviolato, ma come cose per me, voci che prendono ad abitare con me la mia esistenza.

Se oggi tanto si parla di “Civiltà Occidentale” è senz’altro perché questi due termini così riuniti danno voce all’esserci di qualcosa. Eppure, nonostante le energie profuse da apologeti e detrattori per condurre guerre più o meno civili, più o meno sante, più o meno armate di buone ragioni o di eserciti, il significato di cosa sia questa “Civiltà Occidentale”, non pare del tutto chiaro. In genere, quando interrogati in proposito, ci si limita ad alludere ai fatti, storici, cultu­rali, politici, sociali ed economici avvenuti in una determinata area geografica, o si tenta, al più, di redigere un decalogo di valori di cui tale civiltà sarebbe portatrice e promotrice.

Dunque, in simili determinazioni, la “Civiltà Occidentale” è pensata essenzialmente come un fatto, cioè come qualcosa che ci si può porre innanzi come un oggetto o a cui ci si può rapportare in qualche modo dall’esterno, come a un altro, amico o nemico che sia. Ciò risulta, tut­tavia, insoddisfacente, perché se qualcosa come una “Civiltà Occi­dentale” esiste, allora questa, prima di tutto, è un’idea, ovvero un luogo del pensiero, uno spazio di parola, in cui si sta dentro: si abita. Essere abitatori dell’Occidente e della sua Civiltà significa concepire l’esistenza a partire dall’idea che apre l’orizzonte in cui tale Civiltà consiste. Se la “Civiltà Occidentale” inizia ad esser concepita come spazio in cui l’esistere si offre in un certo modo, secondo un dato senso, allora si può pensare che tutti i fatti che solitamente si menzio­nano come sue cifre caratterizzanti non siano altro che le testimo­nianze della struttura in cui tale spazio trova il suo ordine. Acquista improvviso interesse quell’assonanza che esiste tra la parola “ci­viltà” e la parola “città”, tra civitas e civilitas: così come la città è il modo in cui l’uomo impara ad abitare un certo luogo fisico, co­struendovi gli edifici e le vie della propria esistenza a partire dalle peculiarità intrinseche di questo, così pure la Civiltà è allora, in ori­gine, quell’archetipo ideale stando nel quale edifichiamo per la nostra esistenza un determinato senso.

Andare alla ricerca del significato dell’espressione “Civiltà Occi­dentale”, nel tentativo di cogliere il “che cosa è”, il senso dell’essere di ciò che queste parole nominano, ebbene, tale ricerca avrà dunque da portare in luce la fisionomia di quello spazio originario nella cui idea tutti i fatti che comunemente si menzionano pongono il loro fondamento, ovvero quella città paradigmatica che sta all’origine dell’Occidente in quanto Civiltà e in cui pertanto abita il significato con cui l’uomo occidentale, il cittadino di questa Civiltà, pensa le parole del proprio esserci. Ma proprio perché ci siamo messi in cerca di una città che è anzi tutto un luogo di parole, sorge spontaneo alla memoria il nome di Ilio dalle solide mura.

 Ilio non è un sito archeologico, né una didascalia segnata su un atlante, Ilio, piuttosto, è la città protagonista del poema che abita le origini di ciò che siamo, l’Iliade. Una sorta di miracolo si compie in questa poesia antica di più di tre millenni: proprio qui, ciò che esi­steva come semplice fatto viene per la prima volta trasfigurato in Idea, a cui guarda tutto ciò che all’interno di questa pone la dimora della propria esistenza. Ilio è lo sfondo dell’epopea, anzi, delle infi­nite epopee che nel suo nome intrecciano il loro contrappunto. Ep­pure, poiché il senso degli eventi narrati si inscrive tutto entro quello determinato da questo sfondo, esso se ne mostra come vero e pro­prio orizzonte trascendentale.

Una descrizione dei luoghi interni, di cosa o chi sia dentro le solide mura, la incontriamo nel VI canto, quando Ettore lascia il campo di battaglia per rientrare in città:

 

alle porte Scee Ettore giunse intanto, e alla quercia; e subito gli furono intorno le spose dei Teucri e le figlie chiedendo notizie di figli fratelli parenti e sposi; ma lui le invitata, tutte, a pre­gare gli dei: su molte di loro la sciagura incombeva. Giunse poi alla splendida reggia di Priamo, dai portici luminosi; vi erano in essa cinquanta stanze di pietra chiara, costruite l’una accanto all’altra: qui dormivano i figli di Priamo accanto alle spose; dall’altra parte, di fronte, vi erano le dodici stanze delle figlie, dodici stanze di pietra chiara con il tetto a terrazza, co­struite l’una accanto all’altra: qui dormivano i generi di Priamo accanto alle nobili spose. E come fu giunto alla reggia gli venne incontro la madre dolcissima che stava recandosi da Laodice, la figlia più bella[5].

 

Ad accogliere Ettore sono donne: le spose dei Teucri, le figlie, sua madre Ecuba, poco dopo sarà la volta di Elena, e infine di sua mo­glie Andromaca. Chi resta in città? Le donne. Gli uomini sono fuori, alla guerra, le loro mogli, madri e figlie li attendono, nella speranza di vederli tornare. Su Ilio splende la reggia di Priamo, il re amato da Zeus. Perché amato da Zeus? Perché detentore di una sterminata prole d’eroi: cinquanta figli e dodici figlie, e per ciascuno un talamo nu­ziale. La ricchezza di Ilio è la vita: Ilio è la città della vita, chi vi resta è chi si salva dalla guerra, chi non è chiamato dalle Parche a morire sul campo di battaglia, ma anche chi ama di un amore così carnal­mente avvolgente che smemora addirittura il combattimento e l’onore.

L’amore che troviamo nell’accampamento acheo è intriso di morte e sangue, è l’amore precario e votato alla tragedia di Achille per Bri­seide e Patroclo, amore della sua stessa madre, Teti, che piange le sorti del figlio che ha generato: «figlio mio, perché ti ho cresciuto, io, madre infelice? […] Sei votato a morte precoce e ora sei anche infe­lice fra tutti: per un triste destino ti ho messo al mondo, nella reggia di Peleo»[6].

E dentro Ilio, oltre le porte Scee? Ci sono le stanze della reggia di Priamo e in una specialmente fugge l’unico eroe a cui della guerra non importa proprio nulla, pure se l’ha innescata. Con divina, sor­prendente disinvoltura troviamo infatti Paride, da tutti disprezzato, che appena può scappa dal combattimento. Per far cosa? Per ritro­vare Elena, che «volgendo altrove lo sguardo rivolse allo sposo pa­role di biasimo: “Sei dunque tornato dalla battaglia; vorrei che tu fossi morto là”»[7]. Ma a Paride questo non importa, dentro la città non si combatte, s’ha da fare una sola cosa: fare all’amore. «Le ri­spose Paride allora: “No, donna, non straziarmi l’animo con offese crudeli; oggi Menelao ha vinto con l’aiuto di Atena, un’altra volta sarò io a vincere lui; anche noi abbiamo i nostri dèi. Ma ora, sdraia­moci e facciamo l’amore; mai fino ad ora il desiderio mi prese il cuore in tal modo”»[8].

Dunque, non è vero, come invece sarebbe potuto sembrare in un primo momento, che nell’Iliade, pòlemos è padre di tutte le cose. Il detto di Eraclito non vale per ciò che si trova dentro la città, ma solo per ciò che sta fuori.

Le bianche mura di Ilio segnano il cerchio della vita, della fertilità che genera e di Eros dio d’amore che unisce e congiunge. La vita è dentro queste mura. Ilio è città ben difesa, le sue mura per nove anni resistono all’assedio delle truppe achee. Ilio è città ricca e prospera perché il suo re, Priamo, è il re amato da Zeus, ovvero è quel re a cui Zeus ha concesso di avere molti figli. Ilio è città assediata perché nella sua rocca custodisce un tesoro rubato: la bella Elena. Chi è fuori dalla città non è che combatta per entrare, ma è chiamato a combat­tere, cioè a morire, proprio in quanto sta fuori. La vita è racchiusa nel cerchio ben sicuro delle mura. Fuori c’è il campo di battaglia, ovvero il regno di Hýpnos e Thanatos.

E la prima grandiosa immagine di ciò che sta fuori da Ilio l’avevamo incontrata infatti fin da subito, all’inizio del primo canto, quando Apollo

 

discese, con l’ira nel cuore; sulle spalle portava l’arco e la chiusa faretra; risuonavano i dardi sulle sue spalle mentre avanzava in preda alla collera; veniva avanti, simile alla notte. Si fermò lontano dalle navi e scagliò una freccia: emise un suono sinistro l’arco d’argento; prima colpiva i muli e i cani veloci, ma poi prese di mira gli uomini con il suo dardo acuto. Fitti e senza tregua ardevano i fuochi dei roghi. Per nove giorni volarono per il campo le frecce del dio[9].

 

            Apollo furente esaudisce la preghiera di Crise, la cui figlia Agamennone non vuole liberare, e per nove giorni infuria la pesti­lenza sugli Achei. Così come per nove anni, fuori da Troia, infuria la morte, per Elena la bella che la città ha rapito e tiene chiusa entro le sue mura. Poiché la vita è chiusa al sicuro in un luogo, fuori da que­sto luogo non resta che la morte. La vita è donna, giacché è la donna che chiude in sé la vita nascente e la dà alla luce. Ma la vita, fin dal suo concepimento è chiusa e protetta, prima nel ventre materno, poi difesa entro la città. E poiché tutta la vita si raccoglie in questo luogo sicuro, allora fuori non resta che il regno inospitale della morte. Non si muore perché si vuole accedere o conquistare la vita, ma si muore perché, fuori dalla città della vita e dell’amore, non resta altro da fare che combattere per morire.

Non è un caso, allora, che l’Iliade non termini con la presa della città, di questo, anzi, non dice nulla, come nulla della città raccon­tava prima che a questa le navi veloci degli Achei portassero l’assedio. Termina il poema, invece, l’immagine dell’amore che scende nei campi della morte a reclamare indietro le spoglie di ciò che ha amato: il re amato da Zeus, Priamo, si reca da Achille a suppli­care indietro il corpo straziato del suo figlio più valoroso, e unen­dosi l’eroe stesso al cordoglio del vecchio, nel ricordo di altre morti e altre sventure, Achille l’eroe acconsente a restituire la salma, giac­ché, pare suggerire Omero, tutti siamo uguali quando piangiamo la morte di chi abbiamo amato.

            E l’Iliade si conclude cantando una solenne celebrazione fune­bre:

 

aggiogarono ai carri muli e buoi, e rapidamente si radunarono davanti alla città; per nove giorni portarono legna, in gran quantità; ma quando, il decimo giorno, si levò la luminosa Au­rora, allora, piangendo, trasportarono il corpo del valoroso Ettore, lo posero sulla sommità della pira e appiccarono il fuoco. Quando al mattino apparve l’Aurora con la sua luce ro­sata, allora il popolo tutto si raccolse intorno alla pira di Ettore glorioso. E dopo che furono tutti riuniti, allora per prima cosa spensero il rogo versando il vino fulgente là dove si erano le­vate le fiamme; i fratelli e gli amici raccolsero poi le bianche ossa e piangevano, il volto inondato di lacrime. Raccolsero le ossa e le misero in un’urna d’oro che avvolsero in morbide stoffe di porpora; poi la collocarono in una fossa profonda che ricoprirono con un fitto strato di pietre; in fretta elevarono un tumulo e tutt’intorno vi posero guardie perché gli Achei dalle belle armature non attaccassero prima del tempo. Dopo aver eretto la tomba tornarono indietro, in città, e qui, tutti insieme riuniti, presero parte al sontuoso banchetto nella reggia di Priamo, il re amato da Zeus. Così celebrarono il rito per Ettore, domatore di cavalli[10].

 

            Così come per nove anni si era consumato lo scempio della stirpe di Priamo, così per nove giorni si stette a raccogliere legna su cui bruciare le spoglie dell’eroe più forte. E ciò che di lui rimase, le ossa, in quanto resto ultimo della sua viva esistenza, le si chiusero in un’urna preziosa, e l’urna fu sotterrata e fu fatto elevare un tumulo di pietre protetto dalle guardie: anche a questo ultimo ricordo di vita venivano così tributati gli onori tributati alla vita tutta, ovvero la protezione, il venir racchiuso e messo al sicuro dentro qualcosa che possa difendere e separare da ciò che sta fuori. Ed eretta la tomba fuori dalle mura, il corteo dei vivi rientra nel suo luogo naturale e qui consuma il suo banchetto in onore del morto. Questo il rito per Et­tore, domatore di cavalli.

            Eppure, era stato Priamo a dire a Ettore, e proprio per cer­care di trattenerlo e non farlo scendere in quello che sarebbe stato il suo ultimo duello, era stato proprio il re amato da Zeus a proferire quelle parole che a noi suonano così tremende: «quando un giovane muore, ucciso in battaglia, e giace a terra straziato dalle acute armi di bronzo, tutto a lui si addice, tutto quello che si vede di lui, anche se è morto, è bello»[11]. E il suo intento era chiaramente dissuaderlo dalla guerra, rammentargli che, se lui così giovane e forte fosse ca­duto, il suo vecchio padre avrebbe certamente offerto una scena me­schina quando fosse rimasto inerme innanzi all’arma del nemico. Ma, appunto, come cerca di dissuadere Ettore, il vecchio Priamo? Invocando che, essendo ormai vecchio, per lui ormai non sarebbe bello morire in battaglia. Ma Priamo stesso sta affermando: per un uomo nel fiore degli anni è bello morire in battaglia, ed Ettore è un uomo nel fiore degli anni, il più bello e il più forte di Ilio.

Ed Ettore stesso, salutando per l’ultima volta il suo piccolo Astia­natte, aveva pregato:

 

Zeus, e voi divinità del cielo, fate che questo mio figlio sia come me, che si distingua fra i Teucri per forza e valore, che regni sovrano su Ilio. E vedendolo tornare dalla battaglia un girono qualcuno dirà: “È molto più forte del padre”. Lui tor­nerà portando le spoglie insanguinate dei nemici uccisi e la madre ne sarà lieta in cuore[12].

 

            Dunque Priamo ed Ettore sono concordi nel porre come loro orizzonte fondamentale l’idea che è nella guerra che si decide il va­lore di un uomo e che è della guerra un’intrinseca bellezza: la vita bella è quella spesa combattendo, questo è il primo e l’ultimo coman­damento che riempie i silenzi tra un verso e l’altro di tutto il poema.

            Cos’è la vita? Ciò che vien chiuso, racchiuso, difeso entro una linea che tutta la circonda e che dentro di sé la salva, come nel ventre materno, da tutto quello che sta fuori. Questa linea è esemplificata materialmente dalle le fortificazioni entro cui Ilio sta sicura, Ilio che appunto è chiamata dalle solide mura. È proprio dell’idea del muro difensivo il dover difendere: laddove esiste un muro difensivo si pre­suppone che tutto ciò che stia oltre quel muro sia un possibile ne­mico. Il muro è ciò che già da sempre sta combattendo il primo ne­mico: il fuori in quanto tale. Alla città ben protetta dalle sue mura si può accedere, se lo si vuole, solo e unicamente attraverso le porte: ov­vero quelle aperture provvisorie nel muro di cinta che consentono e regolano i contatti con l’esterno secondo la legge imposta dal re della città. Attraverso le porte il re domina non solo su chi entra e chi esce, ma sulla possibilità stessa di questo entrare o uscire. Il nemico è chi vuole abbattere il muro, oltrepassarlo eludendo il dominio. In­nanzi al nemico le porte vengono rinserrate, o aperte solo per lasciar uscire gli eserciti chiamati alla guerra, ovvero gli alleati del muro che devono sostenere quest’ultimo nella sua eterna lotta contro il fuori. Il nemico non deve poter varcare le porte, non deve avere ac­cesso, non deve poter entrare dentro la città.

            Ma chi è il nemico? Chi sta fuori. E se la città è il luogo dove ben protetta sta sicura la vita, chi può attendere fuori, se non la morte stessa? La morte è il nemico. Essa sta fuori dalla città ove abita la vita. Alla morte è fatto divieto di varcare le porte con cui la città da essa si difende, per la morte non c’è spazio né ci deve essere den­tro la città. Eppure, per tenere la morte fuori dalla città, occorre lot­tare. Le solide mura già sempre lottano. Ma quando la lotta si fa ac­canita e la morte non giunge sola ma accompagnata da eserciti ed eserciti di uomini, pronti a morire per conquistare la vita, ebbene, allora bisogna uscire dalla città per difenderla, uscire dalla vita per difen­dere la vita: la vita è salva solo se muore. Gli Achei sono coloro che accettano la morte, lo star fuori, pur di poter entrare e dar conquista alla città della vita. I Troiani sono coloro che la città della vita abi­tano e che dai nemici assedianti fuori devono difendersi. Entrambi condividono il medesimo assunto fondamentale: per vivere bisogna morire, tutto sta a scegliere come.

            E proprio questo convincimento risuona sulle labbra dell’eroe che più di tutti conosce la morte e il pianto per la morte di chi ha amato, Achille, che così risponde a Odisseo, quando questi lo supplica di abbandonare la sua ira e ridiscendere in battaglia:

 

Niente, per me, vale la vita: non i tesori che la città di ilio fio­rente possedeva prima, in tempo di pace, prima che giunges­sero i figli dei Danai; non le ricchezze che, dietro la soglia di pietra, racchiude il tempio di Apollo signore dei dardi, a Pito rocciosa; si possono rubare buoi, e pecore pingui, si possono acquistare tripodi e cavalli dalle fulve criniere; ma la vita dell’uomo non ritorna indietro, non si può rapire o riprendere, quando ha passato la barriera dei denti[13].

 

            Perché «niente vale la vita»? Perché la vita «non ritorna indie­tro, quando ha passato la barriera dei denti». Niente vale la vita, perché la vita è mortale e lo è perché, per salvarsi dalla morte, deve morire. Per ogni vita esiste un tempo estremo in cui la morte la chiama a difendersi, morte minaccia di vincere le solide mura e quindi costringe i vivi ad uscirne e battersi e morire. Bisognerà ne­cessariamente sempre difendere ciò che si erige per difendersi: ogni opera costruita per la propria difesa è un’opera che postula l’esistenza di un nemico potente tanto da imporci una costruzione difensiva. Ma costruita l’opera difensiva, proprio perché la sua edi­ficazione è determinata dalla potenza del nemico, si presuppone e si sa già che prima o poi bisognerà a nostra volta difenderla.

            La vita è quella che sta chiusa entro solide mura, perché fuori esiste un nemico, così potente da imporci di erigere solide mura, se davvero vogliamo sfuggirgli. Questo nemico è la morte. La vita può vivere solo se accetta di chiudersi in una rocca, in cui attendere e poi consumare i giorni del suo assedio. Cosa è, dunque, la morte?

            In un’immagine, sola per grandezza e forza, l’Iliade ce lo mo­stra:

 

Aveva appena parlato e la morte lo avvolse, l’anima abban­donò il corpo e volò verso l’Ade piangendo il suo destino, la forza e la giovinezza perdute. Era morto, e il divino Achille gli diceva: “Tu, muori; io accoglierò il mio destino quando Zeus e gli altri dei immortali vorranno che si compia”. Disse così e strappò dal cadavere l’asta di bronzo, la mise da parte, poi gli tolse dal corpo le armi insanguinate. Tutti gli Achei accorsero intorno, ammiravano il corpo di Ettore e la sua bellezza e tutti, standogli accanto, gli vibravano un colpo e poi, guardandosi l’uno con l’altro, dicevano: “certo, è molto più morbido da toc­care, Ettore, ora, di quanto appiccava il fuoco ardente alle navi”. Così dicevano e lo colpivano da vicino. Ma il divino Achille […] intanto preparava per Ettore un oltraggio indegno. Nella parte posteriore dei piedi forò i tendini, tra caviglia e tallone, vi passò della corregge e le legò al carro, lasciando che la testa fosse trascinata per terra. Poi salì sul carro portando le armi famose e con un colpo di frusta stimolò i cavalli che di slancio presero il volo. Una nuvola nera si leva intorno al corpo trascinato, i capelli bruni si spargono intorno, nella pol­vere giace la testa che prima era così bella e che ora Zeus ha abbandonato ai nemici perché le rechino oltraggio nella sua stessa patria[14].

 

            Morire significa perdere la forza, la giovinezza e la bellezza, vuol dire lasciare la parte migliore di sé, in questo caso il corpo, in balia del nemico, dei suoi scherni e del suo oltraggio: la morte è im­potenza, ovvero fine della propria potenza. La potenza è la forza, la giovinezza e la bellezza, ovvero l’aver forza e tempo e meriti per imporre il proprio volere. La fine di questa potenza è l’esser ridotti in balia dell’altro, il non poter più far valere la propria forza, il non poter più godere della propria gioventù, il veder corrompere la pro­pria bellezza, rovinata nella polvere della disfatta. Morire significa finire nella polvere, la morte è l’esser consegnati all’altro da sé, nel modo più radicale in cui ciò è possibile, da cima a fondo: l’altro può disporre totalmente di tutto ciò che di me valeva e che era solo mio, il corpo. La morte è l’altro da me che mi domina integralmente e può far di me ciò che vuole, umiliare la mia gioventù, insozzare la mia bellezza, calpestare la mia forza ormai resa impotente innanzi ai suoi scherni. La morte è l’altro che impossessandosi di me mi an­nulla.

Ettore aveva detto ad Achille: «sento in me il coraggio di starti di fronte: ti ucciderò o mi ucciderai»[15]. Nemico innanzi a nemico, non c’è scelta: uno dei due deve morire, ovvero esser consegnato all’altro. L’unica differenza è il modo in cui ciò può avvenire, Ettore promette di rispettare il corpo di Achille se questi dovesse cadere, Achille sprezza tale promessa. Ma anche queste differenze confermano ciò che stiamo mostrando: la morte è il più radicale assoggettamento all’altro, uscire di sé per cadere in mano al nemico. Così l’anima di chi muore fugge all’Ade, passa la barriera dei denti, esce dal corpo. E il corpo, da cui è così uscita la vita, muore in quanto si lascia dominare dal nemico che ora su di lui ha il potere di fare ciò che vuole e tra­sformarlo in cadavere e oltraggiarne l’onore, la morte entra e compie il suo saccheggio, la sua razzia, la sua devastazione nella città ormai espugnata.

Proprio perché resta fermo il punto che la morte è questo uscire da sé per cadere in mano all’altro, acquista importanza assoluta il modo in cui ciò avvenga: visto che la morte, in quanto tale, è qualcosa di irresistibile, tutto sta e tutto si gioca nel come viene affrontata e su questo come si decide ogni valore, ogni senso e ogni gloria della pro­pria esistenza.

Morire è l’uscire da sé, l’andare altrove, il cadere sotto il potere di chi ci è estraneo, di chi sta fuori di noi, per questo la vita va protetta, per questo va cinta da mura che possano salvarla e tenerla sicura, ferma in sè. La morte è fuori perché è ciò che ci trascina fuori di noi, cioè ci fa diventare altro da ciò che siamo. E la morte vince sempre, perché il fuori costantemente ci assedia e incombe, fino a costrin­gerci ad uscire di nostra volontà, per scegliere almeno il modo della nostra sconfitta. La morte è il diventar altro, e se vogliamo restare ciò che siamo, se vogliamo restare nella vita, dobbiamo difenderci da questo divenire.

Chi abita Ilio, è colui che vive solo in quanto è nato per morire, ov­vero per uscire dalla città e scegliere in battaglia in che modo dire addio a se stesso, in che modo uscire da sé e farsi ridurre ad altro. Chi abita Ilio è l’uomo inteso come il mortale, colui che è chiamato a esi­stere solo per uscire dalla città fiorente della sua stessa esistenza. Il valore di questa vita è dunque il valore della cosa fuggevole, che va colta fino a che c’è e che va goduta sino a che non sia chiamata all’estrema difesa di se stessa, ovvero alla lotta per scegliere come perdere sé nel diventar altro. Vivere, per contro, è essere uno, essere se stessi, sempre uguali, in sé stessi esistere e in sé stessi stare, muore chi esce, giacché la morte abita il fuori in quanto tale. Nella Ci­viltà di Ilio, vivere è lo stare in quel luogo fuori dal quale si diventa altro da sé, si muore. Vivere è chiudersi nella rocca ben protetta del proprio sé stesso identico soltanto a sé: se ne esce solo per andarsi a scegliere la propria morte. Ilio dalle solide mura, civiltà del Limite, della solitudine che spetta all’Uno che non esce da sé e dentro di sé resta ben protetto, proprietario di quell’esistenza che scopre così la possibilità di pronunciare la parola “mio”.

 

3.    La Repubblica

 

Quando tu incontri gente che loda Omero e sostiene che que­sto poeta ha educato l’Ellade e che merita di essere preso e studiato per amministrare ed educare il mondo umano, e che secondo le regole di questo poeta si organizza e si vive tutta le propria vita, questa gente si deve sì baciarla e abbracciarla come quanto mai eccellente, e riconoscere che Omero è il mas­simo poeta e il primo tra gli autori tragici; ma si deve anche sapere che della poesia bisogna ammettere nello stato sola­mente la parte costituita da inni agli dèi ed elogi agli onesti. Ma se vi ammetterai la sdolcinata Musa lirica o epica, nel tuo stato regneranno piacere e dolore anziché legge e quella che da tutti concordemente è sempre giudicata l’ottima ragione[16].

 

            In effetti proprio così ci interromperebbe a questo punto Pla­tone, non permettendoci di proseguire più oltre nelle nostre osser­vazioni. Ma come, pretendiamo di esser filosofi e poi andiamo dietro alle parole di un poeta?

 

Resti detto tuttavia che, se la poesia imitativa rivolta al piacere dimostrasse con qualche argomento che deve avere il suo po­sto in uno stato ben governato, noi saremmo ben lieti di riac­coglierla, perché siamo consci di subire il suo fascino[17].

 

            Certo, Platone, quando ci muove queste osservazioni, sta di­scutendo la sua Politeia, ovvero della fondazione dello Stato giusto e, più in generale, di cosa sia la giustizia in sé. Il problema è squisita­mente educativo, dove si assume l’educazione nel senso più radicale del termine, come edificazione dell’individuo e dello Stato assieme. Tutto il dialogo può essere letto in chiave pedagogica, ovvero come il tentativo di giungere alla determinazione di quale sia il percorso educativo necessario a formare un uomo giusto. E se questo è l’intento, allora ben si comprende perché Socrate così ammonisca:

 

tutte le battaglie divine inventate da Omero, non si devono ammettere nello stato, abbiano o non abbiano queste inven­zioni carattere di allegoria. Il giovane non è in grado di giudi­care ciò che è allegoria e ciò che non lo è: tutte le impressioni che riceve a tale età divengono in genere incancellabili e im­mutabili. Ecco perché è assai importante che le prime cose udite dai giovani siano favole narrate nel miglior modo possi­bile con l’intento di incitare alla virtù[18].

 

            Certamente, se stiamo a vedere i “modelli educativi” forniti dall’Iliade, non possiamo che concordare con Platone, basti pensare, oltre ai vari esempi ricordati nel dialogo, al caso forse ancora più emblematico di Achille che, in fondo, per una questione di onore personale «infiniti addusse lutti agli Achei e molte anzi tempo all’Orco generose travolse alme d’Eroi». Ma tuttavia, come dice­vamo all’inizio, le vicende degli uomini e degli dèi prendono senso e si comprendono solo se si accetta di seguirle all’interno dello sfondo, dell’orizzonte in cui sono iscritte. L’Iliade non è solo poema che narra di una guerra epica, ma è, forse prima di tutto, canto di quello che oggi, con espressione un poco banalizzante, potremmo chiamare uno “stile di vita”, ovvero un preciso modo d’intendere l’esistenza. L’Idea fondamentale di questa concezione sta nel pensare la vita come ciò che è ben racchiuso in se stesso, ciò che deve restare pro­tetto e unito. Non a caso, quando la filosofia, fin dai suoi albori, do­vette pensare la morte, la pensò, in modo più o meno articolato, come disgregazione, ovvero dispersione di quell’unità che, stando raccolta sicura nell’identità con sé medesima, era appunto il vivere.

            Dunque, possiamo anche contestare che il modo scelto dagli eroi omerici di affrontare la vita e la morte non sia affatto un esem­pio di virtù, o, almeno, che non sia un esempio di quella che Platone intende essere la virtù. Ciò non toglie, però, che quell’archetipo, quel paradigma che gli eroi declinavano a modo loro, non sia rimasto in­variato almeno nei suoi tratti essenziali e non sia comune anche a Platone stesso, sicché si potrebbe addirittura avanzare la tesi che legge nella Politeia non tanto una contestazione al fondamento di quella che potremmo chiamare la Civiltà Omerica, quanto piuttosto al modo in cui gli eroi cantati da Omero hanno abitato l’Idea che stava alla base di tale Civiltà, una critica non al paradigma in quanto tale, ma ad una sua specifica declinazione.

            Nel Filebo, Socrate avrà da affermare:

 

gli antichi, che erano migliori di noi e che stavano più vicini agli dèi, ci hanno trasmesso questo oracolo: che le cose che si dice che sempre sono, sono costituite di uno e di molti, e hanno per natura in se stesse limite e illimitatezza. Dunque, poiché queste cose sono ordinate in questo modo, bisogna che noi poniamo e cerchiamo, ogni volta, sempre un’unica Idea per ogni cosa[19].

 

            E nella Repubblica chiede: «possiamo dunque citare per lo Stato un male maggiore di quello che lo divide e lo fa di uno molte­plice? O un bene maggiore di quello che lega lo Stato e lo fa uno?»[20]

Ma non è allora troppo difficile intendere come, per Platone, Uno Limite e Bene coincidano e siano tre parole che danno voce ad una medesima realtà, anzi, a quella realtà che sta al fondamento di tutte le cose, all’unica vera achè. Ma questa archè è il medesimo archetipo che Omero raffigura nella città di Ilio: l’Essere stesso, quando si de­clina come l’esistere in questa città, è considerato, dai mortali, proprio in quanto Uno, Limite, Bene. Proprio sulla base di tale sostanziale as­sunzione del paradigma archetipico tratteggiato dalla poesia di Omero, Platone, dandone sanzione metafisica, può contestare il modo in cui in Omero l’Idea era, dal suo punto di vista, malamente realizzata e quindi, con estremo rigore e coerenza, dedurre quale in­vece debba essere il modello dello Stato giusto, in cui i

 

cittadini devono essere indirizzati ciascuno a quell’attività per cui hanno naturale disposizione, uno solo a un’opera sola, perché ciascun individuo, attendendo all’unica opera che gli è propria, non diventi molteplice ma resti uno, e così tutto lo stato sia unitario, non molteplice. […] I dirigenti dello stato devono insistere su questo principio, se vogliono evitare che lo si distrugga a loro insaputa e salvaguardarlo in ogni circo­stanza[21].

 

            E va allora da sé che per l’individuo la giustizia non sia altro che la traduzione, all’interno della soggettività, di questo medesimo principio che

 

consiste nell’adempire i propri compiti non esteriormente, ma interiormente, in un’azione che coinvolge veramente la pro­pria personalità e carattere, per cui l’individuo non permette che ciascuno dei suoi elementi esplichi compiti propri di altri né che le parti dell’anima s’ingeriscano le une nelle funzioni delle altre; ma instaurando un reale ordine nel suo intimo, di­venta signore di se stesso e disciplinato e amico di se mede­simo e armonizza le tre parti della sua anima […] dopo averle legate tutte ed essere divenuto uno di molti[22].

 

            Gli abitanti della Politeia platonica sono pertanto i medesimi abitanti di Ilio, divenuti però in qualche modo più saggi, più sa­pienti, ovvero più lucidamente coerenti con le regole del luogo in cui vivono. Ciò che Omero cantava in poesia, Platone lo radicalizza temprandolo nel fuoco dell’ottima ragione e ponendolo come pietra angolare di tutto il suo edificio metafisico. Ilio dalle solide mura ri­sorge così non più nel dominio fantastico e mitico delle epopee nar­rate dagli aedi, ma acquista la dignità e la solidità di un sistema di pensiero che sbarra la strada al nemico opponendogli la forza del proprio logos.

            Lo sviluppo di una città è spesso il suo fortificarsi e ingran­dirsi attorno al nucleo originario. La storia della Civiltà Occidentale è la storia di come le solide mura di Ilio si siano fatte sempre più so­lide, sempre più forti, sempre più invalicabili. Sempre più chiuse a proteggere qualcosa come il singolo. Platone è tappa centrale in que­sto processo giacché per primo ha tentato di tradurre quello che era ancora solo un orizzonte poeticamente taciuto come sfondo in un si­stema di ragioni filosofiche che sfidano l’invincibilità dell’incontrovertibile, aspirando a porsi come epistéme.

            La civiltà nata in Ilio, dall’idea stessa che l’esistere è il chiu­dersi nel limite invalicabile del finito, diventa la civiltà che parla la lingua del fine, del telos, e quindi del valore, diventa propriamente Civiltà Occidentale, ovvero che guarda all’Occidente, al punto dove il Sole, simbolo platonico del Bene, sempre tende e dove sempre va a terminare la sua corsa quotidiana.

Non è certo un caso, del resto, la preoccupazione di Platone per giungere a dimostrare razionalmente l’immortalità dell’anima indi­viduale: il non riuscire a salvare per sempre la vita dalla morte do­veva infatti parere all’illustre ateniese una debolezza filosofica imper­donabile, giacché, così, tutto l’edificio finiva per fallire il suo scopo, le mura non si mostravano più così solide come avrebbero dovuto, visto che alla fine non giungevano a difendere una volta per sempre ciò per la cui difesa erano state edificate. E a Platone, del resto, non interessa infatti l’immortalità in quanto tale, come concetto generico o astratto, ma sempre l’immortalità dell’anima individuale che si porta all’Ade le sue colpe e le sue virtù in modo da poter essere giu­dicata in base a ciò che è stata: in modo più radicale non si potrebbe pensare l’esser-sempre-me, il restar sempre io e sempre proprio io, che sono immortale proprio perché, anche nella morte, non divento altro e anche nell’aldilà vado con tutto quello che sono stato e ho vissuto.

            Ma questa dimostrazione è forse per il logos un compito troppo alto e laddove il logos è costretto al silenzio, occorre ammettere la voce del mito che con la sua parola fantastica eppure verosimile sod­disfi quell’esigenza di ribadire la valenza etica dell’immortalità e quindi suggellare in questa la cifra di una finitezza irriducibile, di un essere assolutamente limitato nel sé, proprio dell’essere dell’anima in quanto mia. Non è un caso, allora, che la Politeia si con­cluda con il grande mito escatologico di Er, fornito proprio subito dopo che Socrate, mostrato, forse un po’ troppo frettolosamente, come nella dimostrazione razionale dell’immortalità «non c’è alcuna difficoltà», aveva concluso: «ebbene, quando una cosa non perisce per male alcuno, né suo né non suo, è chiaro che deve esistere sem­pre e, se esiste sempre, è immortale. Ecco dunque un punto acqui­sito»[23].

Eppure, ciò non è sufficiente, serve il mito. Evidentemente, siamo qui innanzi a qualcosa di più che un corollario metafisico, non sta in ciò il senso. L’immortalità dell’anima è la formulazione rigorosa data dalla metafisica platonica per pensare il più grande desiderio di ogni abitante di Ilio: non essere chiamati a uscir fuori, poter essere di­fesi da mura così forti, da logoi così solidi, che nessun nemico potrà mai penetrarvi. Essere immortale, essere eterno: il significato di que­ste espressioni allude al poter essere sempre uguali, al poter stare sempre nel medesimo luogo, dove il luogo è inteso in senso lato come quel certo spazio in cui l’esistenza viene ad abitare. E perché Platone sente quest’esigenza? Ma proprio perché lui, il più greco dei greci, non ha mai smesso di abitare Ilio dalle solide mura, né ha mai smesso di pensare come fosse possibile rendere queste mura ancora più so­lide, infinitamente più solide: eterne.

 

4.    Equivoco e liberazione della Parola

 

C’era tra i farisei un uomo chiamato Nicodèmo, un capo dei Giudei. Egli andò da Gesù, di notte, e gli disse: “Rabbì, sap­piamo che sei un maestro venuto da Dio; nessuno infatti può fare i segni che tu fai, se Dio non è con lui”. Gli rispose Gesù: “In verità, in verità ti dico, se uno non rinasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio”. Gli disse Nicodèmo: “Come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse entrare una se­conda volta nel grembo di sua madre e rinascere?”. Gli rispose Gesù: “In verità, in verità ti dico, se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quel che è nato dalla carne è carne e quel che è nato dallo Spirito, è Spirito. Non ti meravigliare se t’ho detto: dovete rinascere dall’alto. Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va; così è chiunque è nato dallo Spirito”. Replicò Nicodèmo: “Come può accadere questo?”. Gli rispose Gesù: “Tu sei maestro in Israele e non sai queste cose? In verità, in verità ti dico, noi parliamo di quel che sappiamo e testimo­niamo quel che abbiamo veduto; ma voi non accogliete la no­stra testimonianza. Se vi ho parlato di cose della terra e non credete, come crederete se vi parlerò di cose del cielo? Eppure nessuno è mai salito al cielo, fuorché il Figlio dell’uomo che è disceso dal cielo. E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede abbia la vita eterna”[24].  

               

            Anche la Politeia di Platone fu una città assediata, e, come Ilio, assediata prima di tutto dal fuori. Nel passo che qui si ricorda sta già inscritto il destino di questo assedio.

            Nicodèmo, maestro in Israele, incontra di notte colui che si dice Figlio dell’uomo e che fa segni tali da testimoniare che con lui è Dio stesso. La notte, quando tace la battaglia combattuta, e resta quella delle parole chiamate a ordire l’assalto del giorno che ha da sorgere, o anche solo a dipingere i sogni del rimpianto che il giorno trascorso ha lasciato dietro di sé, in questa notte un capo e maestro incontra qualcuno che parla, fa segni, tali da manifestare innegabilmente una potenza divina. Questo qualcuno, avanza la richiesta inaudita che si rinasca dall’alto, e come premio di ciò promette in cambio la vita eterna.

            Il Cristianesimo promette, con l’autorità di Dio, ciò che il lo­gos platonico sempre si era affannato a dimostrare, ovvero tenere fermo e lontano dal dubbio, legato ben solido nei lacci degli argo­menti per non permettergli di sfuggire altrove, cioè convertirsi nel suo contrario, vacillare e cadere nel non essere. È per questo che la Repubblica ha da ascoltare questa parola, raccogliendone i segni di­vini. Eppure tale parola è parola nemica della legge su cui si fondava già Ilio, essa chiede agli uomini di rinascere, perché le cose di cui parla il profeta di questo nuovo e diverso logos non sono della terra ma del cielo, cioè di altrove, stanno fuori. Se si vuole la vita eterna, che in Ilio suona come l’eterno poter restare in sé medesimi, sempre se stessi per sempre, si deve diventare altro da ciò che si è, ovvero morire.

            E se questo pare incomprensibile o contraddittorio è solo per­ché non si tratta di un logos qualsiasi, di un argumentum nel senso platonico del termine, quanto piuttosto di qualcosa che fin da subito è prospettato come una fede, di un credere, che non ha più la coerenza platonica ma anzi, nel confronto, il carattere della suprema contrad­dizione. È proprio perché agli occhi della ragione questa promessa ha il carattere del paradosso, che, se si vuole ottenere ciò che la pro­messa prospetta, occorre credere in essa. Si crede, dunque, in qual­cosa di invisibile, incredibile, tanto da aver bisogno di qualcuno che lo mostri agli uomini, che altrimenti senz’altro ne resterebbero del tutto ignari, giacché «nessuno è mai salito al cielo, fuorché il Figlio dell’uomo che è disceso dal cielo». Ciò in cui si ha fede è qualcosa che, essendo essenzialmente oggetto di dubbio, può essere tenuto fermo e scacciare il suo contraddittorio solo in base ad un atto di vo­lontà: se la fede non si radicasse su questo dubbio non avrebbe biso­gno di dirsi fede ma sarebbe epistéme, la scienza dell’incontrovertibile.

            Io esisto e concepisco la mia esistenza, in quanto abitatore di Ilio, secondo il senso del Limite e del finito che racchiudendola entro le proprie mura ne fa qualcosa di determinato, la fa essere. Io so que­sto: che Io sono e che tale essere è l’esser-Io, ovvero l’esser-Uno e Limitato entro questo Uno, l’esser-solo-me. Dunque, soltanto questo Io posso testimoniare. Ma la Parola che mi promette di farmi eterno nella mia solitudine, mi chiede anche di dar testimonianza di ciò che è totalmente altro da me. La fede che mi si chiede è una testimo­nianza impossibile, impossibile proprio perché all’interno del senso che per me ha l’esistere, non incontro, né mai potrei incontrare, ciò di cui mi si chiede di testimoniare e del quale non potrò quindi mai essere testimone. Come si può testimoniare qualcosa che non s’è mai visto? Se salvarmi per me ha il significato del restar protetto dentro il mio me stesso, nella mia identità, come potrò salvarmi rinascendo, cioè diventando altro?

            L’unica cosa che vede Nicodèmo nella notte, è questo rabbì che gli chiede di rinascere e che, con l’autorità di segni divini, gli promette vita eterna in cambio della sua fede. Costui sa che la testi­monianza che lui sta portando non può essere accolta, perché parla di cose che, chi l’ascolta, non solo non ha mai visto ma non può vedere, giacché tutta la sua volontà è una lotta contro l’illimitata alterità con cui tali cose pretenderebbero di abbattere le solide mura che proteg­gono il senso del suo esserci. «Quel che è nato dalla carne è carne»: chi nasce nella Repubblica intende le parole col senso che qui le parole hanno, le ascolta a partire dai problemi che il loro significato qui pone, le segue fintanto che glielo consento i confini che qui si im­pongono agli spazi del vivere, dell’esistere e del pensare.

            Proprio qui, di questa Parola che annuncia l’invisibile, nel senso di ciò che per natura non può mai esser visto, si può portare te­stimonianza solo per fede, ovvero volendo credere ciò che, costituti­vamente, si pone come oggetto di dubbio. La fede può esistere solo come volontà. Una volontà di che cosa? Di essere eternamente, ov­vero di non dover mai essere altro da sé, di non dover mai uscire da sé, poter continuare a vivere ed essere se stessi. Io voglio che le mura di Ilio restino solide e vincano sul fuori, sull’altro, sul nemico. Io voglio la potenza, per questo voglio credere di poter essere sempre e non dover ce­dere smettendo di essere ciò che sono. Pur di donare alla mia difesa dal fuori ulteriore potenza, accetto di far entrare nella città e nella rocca questa Parola che promette eternità al mio volere: nella notte quando tacciono le armi avviene il complotto che svuota i templi dei loro simulacri e vi rinchiude l’immagine invisibile del nuovo Dio.

            La ragione non può testimoniare nulla di quello che la fede le chiede di testimoniare, non perché ciò sia irragionevole in se stesso, ma proprio perché è l’assolutamente altro da ciò che tale ragione pensa e intende essere l’esistenza: la legge di Ilio vieta e mette al bando la possibilità di intendere la Parola fuori dal sistema di sensi e significati che vige nella città. Non è dunque possibile dimostrare l’esistenza di Dio, non tanto perché Dio in sé non esista ma perché l’esistenza è a priori pensata in rapporto a ciò che Dio, se è, non può mai es­sere e che per definizione sempre deve trascendere: quell’assolutamente fi­nito che io sono. Il fatto stesso che si tenti una dimostrazione dell’esistenza di Dio non fa che confermare nei fatti che tale esi­stenza è, essenzialmente, oggetto di fede, ovvero si radica nel dub­bio: io voglio che Dio sia, ma, se venisse meno questa volontà che im­pedisce ogni ulteriore discorso, si potrebbe affermare che Dio po­trebbe non essere. Anzi, più radicalmente ancora, se si lascia libero il logos dalle costrizioni che la volontà gli impone, si dovrebbe giun­gere in modo abbastanza semplice al sillogismo: se Dio è, la sua esi­stenza deve avere il senso dell’Illimitato, ma per me l’esistenza ha unicamente il senso del limitato, dunque l’esistenza di Dio non può avere senso, o, che è lo stesso, io non sono in grado di concepire come realmente significante l’espressione “Dio è”.

            Solo la volontà, quella volontà che vuole eternamente se stessa e lo vuole con tanta forza da rifugiarsi nel credo quia absurdum, può dare testimonianza e credere. Volontà che vuole se stessa per sempre e che in questo sempre legge la conquista della sua estrema potenza, giacché finale vittoria sull’altro, sul fuori ostile che così ab ae­terno resta chiuso fuori, cioè lontano dal mio essere e quindi lontano dalla possibilità di strapparmelo. In fondo, già in Platone il mito è qualcosa in cui si vuole credere, o, meglio, in cui si deve credere se si vuole dare all’immortalità il senso autentico di un restare sempre me: esso «potrà salvare anche noi se gli crediamo»[25]. Ma se ciò è vero, al­lora l’essenza della fede non è altro che una volontà di potenza:

 

perché ormai è necessario l’avvento del nichilismo? Perché sono i nostri stessi valori durati finora che traggono in esso la loro conclusione ultima; perché il nichilismo è la logica pen­sata fino in fondo dei nostri grandi valori e ideali, — perché noi dobbiamo prima vivere il nichilismo, per scoprire che cosa sia propriamente il valore di questi “valori”…[26]

 

            Il nichilismo si rivela come quel pensiero che, conquistando assoluto rigore, giunge a pensare ciò che già la poesia di Omero pre­supponeva: l’Essere è sempre esser-questo e solo questo, ciò che è altro è niente. In tale formula, il “questo” indica precisamente una certa cosa finita e limitata, chiusa entro confini ben determinati e ben for­tificati. Sulla base di questa formula è necessario dedurre che se di cose ne esistono tante e se queste sono soggette a divenire, questo divenire, in quanto le porta ad essere altro da sé, a diventare diverse, le porta a cadere nel nulla: è in base a questa formula che l’Occidente, quando pensa il divenire, pensa sempre, necessaria­mente, il sorgere e l’uscire dal niente. E non a caso Platone, il più oc­cidentale degli occidentali, dovette commettere parricidio verso quel pensiero, quello di Parmenide, che, nel suo ripensare e trasfigurare l’orizzonte di Ilio, sosteneva che nessuna cosa, in quanto “questo”, propriamente è, e che quindi non esiste alcun divenire, se divenire è stare in bilico e oscillare tra l’Essere il non essere.

E se Dio stesso è, ontologicamente, il totalmente altro da me, in quanto l’assolutamente trascendente, non è allora, forse, esso stesso un’ipostasi del nulla? Se bisogna tener ferma la legge su cui si fonda la città di Ilio, quella città che accogliendo nella sua rocca il Verbum si fece Civitas Dei, ebbene non bisognerà allora finire col sacrificare Dio stesso al nulla?

O si tiene ferma la Civiltà a partire dalla quale pensiamo e inten­diamo questa Parola che dal fuori nemico ci giunge, oppure si acco­glie la Parola davvero, e l’assurdità della sua richiesta di rinascere: aut aut. Dio è morto perché noi l’abbiamo ucciso: poiché la sua Parola chiedeva in definitiva il nostro diventar altro, il nostro morire, noi alla fine ce ne siamo difesi e abbiamo ucciso chi, volendoci strappare alla protezione delle nostre mura, si rivelava, in fine, essere nient’altro che un nemico dell’Occidente: questa Parola era un cavallo di Troia da cui però, alla fine, abbiamo saputo difenderci e vincere.

 

Non si dovette alla fine sacrificare una buona volta tutto quanto vi è di consolate, di santo, di risanatore, ogni speranza, ogni fede in una segreta armonia, in future beatitudini e giu­stizie? Non si dovette sacrificare Dio stesso e, per crudeltà verso di sé, adorare la pietra, la stupidità, la pesantezza, il de­stino, il nulla? Sacrificare Dio per il nulla — questo parados­sale mistero della estrema crudeltà rimase riservato alla gene­razione che appunto ora sta avanzando, noi tutti ne sappiamo già qualcosa[27].

 

            La radicalità a cui ci spinge il nichilismo, ci porta a formulare in modo radicale, cioè in termini ontologici, la legge che da Omero a Nietzsche ha determinato il senso dell’esistenza dell’uomo occiden­tale. A questo punto è nostro dovere chiedere: ma tale legge, fino a che punto andrà ancora rispettata? Non è forse proprio questa la ta­vola che va infranta, il valore che va trasvalutato?

            La storia degli ultimi due secoli, ci testimonia il compiersi della Civiltà Occidentale in Civiltà della Tecnica, ovvero Civiltà della vo­lontà di potenza che impone sé a tutte le cose e di tutte e molteplici le fa diventare una sola: la volontà di potenza non è quindi la negazione dell’Idea platonica del giusto e del Bene, ma, piuttosto, la sua enne­sima trasfigurazione, la gigantomachia in cui il paradigma dell’esser-solo-questo, dell’Uno limitato ad essere sempre e soltanto sé, si impone sulla molteplicità delle cose, riducendo e assoggettan­done l’eterogeneità a se stessa. Ciò che oggi volgarmente passa sotto i nomi di “globalizzazione”, “massificazione”, “omologazione” non è altro che la manifestazione più esteriore di questo processo sotter­raneo mediante il quale la Civiltà Occidentale continua a ripensare in modo sempre più coerente il proprio fondamento.

Il nichilismo non è la fine dell’Occidente ma la sua verità. Proprio in quanto ne pensa radicalmente l’essenza, il nichilismo ci porta a scorgere il carattere qualitativo peculiare di tale civiltà, ponendocela come civiltà della solitudine: io e solo io, tutto è uno in me e fuori di me nient’altro, io sono questo e solo questo e quando non potrò più esser questo sarò niente, o questo o niente. Dal Cogito di Cartesio all’Idea assoluta di Hegel, la filosofia non ha fatto altro che meditare sul modo migliore e più coerente per pensare l’assolutizzazione del finito nel “questo”, anche laddove ha pronunciato esplicitamente la parola “infinito”, “illimitato”. La voracità con cui l’Occidente pare aver divorato le altre forme di civiltà, assoggettandole a sé, riducen­dole a propria immagine, s’inscrive nel suo destino, cioè in questa volontà di ridurre l’illimitato entro il limite sicuro che conchiude l’Uno in se stesso, lasciando fuori soltanto la morte, il non essere.

            Ma se oggi è il tempo in cui l’Occidente assume la forma del suo più alto rigore, se oggi l’Idea in cui nasce l’Occidente, proprio perché tradotta in termini ontologici puri, è formulata con una forza che mai prima d’ora ha potuto vantare, se oggi la tecnica è in grado di far sperare a Ilio mura non solide ma addirittura incrollabili, ritra­ducendo ancora una volta, e ora nei termini delle scienze, il mito dell’immortalità, ebbene, allora

 

l’autentico inattuale è il superamento dell’essenza dell’Occidente. Ma in esso vien resa innanzitutto testimo­nianza della verità dell’essere. La quale dice che l’essere è e non è possibile che non sia (Parmenide, fr. 2). L’”essere” — os­sia tutto ciò che non è un niente. Ma, niente, è soltanto il niente, e non anche ‘qualcosa’, che si presuma di mantener si­gnificante come un non-niente (e un significare qualsiasi è un esser significante come un non-niente) e insieme lo si trattenga nel limbo dell’inesistenza, ponendolo appunto come ‘qual­cosa’ (cioè un non-niente) che, quando non è, è niente[28].

 

            Con queste parole, Emanuele Severino, colpisce al cuore la legge che l’Occidente ha sempre pensato e che quindi ha fatto della sua storia la storia stessa del nichilismo. L’Occidente crede che l’Essere sia qualcosa che possa andare nel nulla: è questa la sua fede fondamentale. Essere significa stare qui, fermi, esser sempre sé. Il nemico dell’Essere è il divenire, che fa diventare altro da sé, quindi altro dall’Essere, trascina fuori dalla città sicura e consegna al nulla. Il divenire deve intendersi, per l’Occidente, come un passaggio dall’Essere al nulla in quanto distrugge quella monolitica identità con se stesso che si pensa sia l’Essere in quanto conchiuso nella per­fezione della sua finitudine. Ma poiché la distruzione di questa iden­tità, il diventar altro, è “sotto gli occhi di tutti”, allora si deve affer­mare che l’Essere può non essere, ovvero che le cose sono ma solo quando non sono niente, quando non sono strappate alla pace tran­quilla che riposa dietro la solide mura di Ilio. Riconoscendo il muta­mento, ma pensando che l’Essere sia uno stare in se stessi, allora è forza di necessità riconoscere che il divenire sia passare dall’Essere al non essere.

            Emerge qui il centro concettuale fondamentale, abbiamo in­nanzi il cuore più profondo del problema, il senso stesso della ne­cessità per cui l’Occidente deve essere nichilista e ha in tale nichili­smo il suo più proprio destino. Ma pure, se trasvalutazione deve darsi, non può essere quella dettata dalla volontà di potenza, come vorrebbe Nietzsche, giacché tale volontà altro non fa se non pensare la mede­sima Idea con rigore ancora maggiore, esattamente come Platone già in origine fece con Omero.

            La Civiltà Occidentale è una civiltà della solitudine, questa soli­tudine ha il senso dell’isolamento, della chiusura nella rocca si­cura del proprio sé identico a sé, entro le mura che pongono il limite e separano l’Uno dall’Illimitato, mettendolo così in salvo dalla di­sgregazione, dalla morte: dal niente.

 

L’accoglimento della terra si unisce alla convinzione che la terra sia il tutto con cui noi abbiamo sicuramente a che fare. In tale convinzione, l’essere che accade viene isolato dalla verità dell’essere. […] La non verità è la sollecitudine per la terra, unica alla convinzione che la terra sia la dimensione con cui abbiamo sicuramente a che fare, e al di là della quale si stende l’oscurità più profonda[29].

 

            Ma a questo punto, proprio perché viene formulata in tutta la sua radicalità, la legge su cui si fonda e cresce l’Occidente, si mo­stra anche come contraddizione, giacché impone agli opposti l’identità e si ritiene in dovere di porre che l’Essere sia identico al non essere, che le cose siano un niente a cui talvolta accade di essere, ma il cui destino sia essenzialmente quello di sorgere e tornare al nulla.

 

La verità vuole la terra; l’errore pensa il voluto come il tutto sicuramente esistente. Lo spicco della terra sullo sfondo di­venta così l’isolamento della terra, la sua separazione dalla ve­rità. L’isolamento non è l’apparire della terra senza che la ve­rità della terra appaia, ma è l’apparire del pensiero che pone la terra come il terreno sicuro. La terra appare sempre legata alla verità, giacché nulla può apparire se non appare la verità dell’essere; ma nell’apparire accade anche l’errore, che pensa l’isolamento della terra, cioè riconosce solamente una parte di ciò che appare. Così la verità e l’errore si contendono la terra. Ognuna delle cose della terra — gli uomini, le piante, le azioni, i sentimenti, i corpi, i pensieri — appaiono, nella non verità, in questo loro venir contese. La distrazione dalla verità, in cui consiste la non verità come vita normale dell’uomo, è l’apparire degli enti della terra come contesi alla verità da parte dell’errore. […] Volendo la terra, la verità la solleva dallo sfondo; e l’errore acuisce lo spicco, sradicandola dallo sfondo e ponendola come il tutto che sicuramente esiste. Il linguaggio — che appartiene anch’esso all’accadimento della terra — si dispone allora a nominare le cose della terra, che stanno di­nanzi come isolate dalla loro verità. Ma il linguaggio della non verità porta le tracce della profondità abissale[30].

 

            Proprio perché la legge del nichilismo intende l’Essere come qualcosa che si lascia domare e cavalcare dal niente, proprio perché intende l’esistenza come l’esser-sempre-mio, l’esser-sempre-sé, il raccogliere la molteplicità limitandola entro i confini perfetti dell’Uno, ebbene, proprio per tal motivo, per espugnare la città ba­sterà riportare questa parola al suo senso originario, ovvero a quel senso che rifiuta come impossibile e insensato ciò che la legge pure vorrebbe imporgli di significare[31].

Omero narra la caduta della città in un diverso poema per mano di un diverso eroe. Così, pure, ora che si mostra in tutta chiarezza come l’essenza dell’Occidente sia l’essenza stessa del nichilismo, e come la sua legge sia la volontà che costringe a isolare l’esistenza nel “questo”, facendo un Assoluto di ciò che assoluto non può essere, ovvero destinandola unicamente ad assoluta solitudine, ebbene, è dav­vero giunto il tempo di una svolta epocale che solo a questo punto può esser pensata in tutta la sua portata, svolta come non ve ne fu­rono altre nel corso della nostra Iliade, dal momento che essa, essen­zialmente, appartiene già, come in Omero, ad un diverso poema.

Anzi, di più: appartiene ad un poema che deve ancora essere scritto, le cui parole hanno ancora da essere pensate e il cui senso resta an­cora inaudito. L’Odissea, quella sorta di fantastico seguito dell’Illiade, non fugge affatto dalla legge della città che Odisseo ha fatto cadere: lui, guerriero che non ama la guerra e navigante che non ama navi­gare, è costretto a mettersi in cammino, è costretto ad andare errante sui mari, laddove invece la sua volontà sarebbe quella di tornare a casa, sulla sua isola. Per l’Occidente, ogni viaggio deve avere un fine, un telos, altrimenti è un errare, un errore: Ilio ha domato Odisseo, affi­dando a lui il compito di portare seco sui mari del tempo le parole della sua legge, o, meglio, la legge con cui domare le parole. E se mai Odisseo avesse da desiderare di imbracciare i remi per andare al di là del limite, mettersi per l’alto mare aperto, di certo non potrebbe che sprofondare nell’errore e meritare quindi una divina condanna, come Dante pure ci testimonia. Diverso poema dovrà dunque essere quello con cui aprire una nuova pagina della storia dell’Occidente, e avrà da iniziare proprio dando all’errare non più il senso dell’errore, quanto quello dell’andare che liberato da ogni fine resta infinito nel suo senso. Occorrerà una buona volta prendere sul serio quella parola che il nichilismo alla fine ha dovuto riconoscere come l’errore più lungo, è giunto forse davvero il tempo di «rinascere dall’alto», dall’altro che ancora non abbiamo saputo essere, che non abbiamo voluto.



[1]    P.M. Erede, Le compatibilità per una Cultura dell’Incontro, in Id., Florilegio, Giuseppe Laterza, Bari 2005, pp. 68-69.

[2]    Ivi, p. 71.

[3]    Ivi, p. 72.

[4]    Ivi, p. 65.

[5]    Omero, Iliade, trad. it. a cura di Maria Grazia Ciani, Marsilio, Venezia 2000, p.118.

[6]    Omero, Iliade, cit., p. 15.

[7]    Ivi, p. 62.

[8]    Ibidem.

[9]    Ivi, p. 4.

[10]   Ivi, p. 504.

[11]   Ivi, p. 435.

[12]   Ivi, p. 125.

[13]   Ivi, p. 175.

[14]   Ivi, pp.445-6.

[15]   Ivi, p. 441.

[16]   Platone, Repubblica, 606d-607a, trad. it. a cura di F. Sartori, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 675.

[17]   Ivi, 607c, p. 675.

[18]   Ivi, 378d-e, p. 131.

[19]   Platone, Filebo, 16c, trad. it., in Platone, Tutti gli scritti, Bompiani, Milano 2000, p. 432.

[20]   Platone, Repubblica, 462b, cit., p. 331.

[21]   Ivi, 423d-424b, p. 237.

[22]   Ivi, 443d-e, p. 289.

[23]   Ivi, 611a, p. 685.

[24]   Giovanni, 3, 1-15.

[25]   Platone, Repubblica, 621c, cit., p. 707.

[26]   F. Nietzsche, La volontà di potenza. Scritti postumi per un progetto [1887-1888], trad. it., in Id., Opere 1882-1895, Newton, Roma 1993, frammento 411, p. 1039.

[27]   F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, aforisma 55, trad. it., in Id., Opere 1882-1895, cit., p. 469.

[28]   E. Severino, La terra e l’essenza dell’uomo, in Id. Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1982, p. 197.

[29]   Ivi, p. 202.

[30]   Ivi, pp. 205-6.

[31]   Cfr. A. Sangiacomo, La sfida di Parmenide. Verso la Rinascenza, il prato, Padova 2007.




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